Beste hizkuntzetako lanen zerrenda

  Traduzione: Roberta Gozzi

 

 

 

—8—

 

— Perché, perché? —mi chiedeva ripetutamente, ma non aveva bisogno di una risposta, era un soliloquio—. Ho cinque figli, perché hai voluto rovinarmi, maledetto italiano?

        Il commissario Puebla, capo della polizia, aveva la responsabilità di custodire la Bestia e, quando il cuoco dello stabilimento balneare mi aveva afferrato da dietro, lui si era lanciato deciso al mio collo.

        Gli è venuto il singhiozzo e se n'è andato, ma prima di chiudere la porta è arrivato sudando un altro poliziotto.

        — Mi capisce, parli mia lingua?

        Gli ho risposto di sì mentre cercavo di trattenere una risata, anche se in realtà ad essere ridicolo probabilmente ero io, con gli occhi gonfi e socchiusi.

        — E l'alfabeto morse, lo conosce?

        — No, non conosco nessun tipo di morse.

        Poco dopo il telegrafista della sala accanto ha cominciato a digitare. Ho pensato che il giorno successivo a Londra, Parigi, l'Avana, Manila, Barcellona avrebbero fatto festa. Poi hanno portato giù la valigia e l'hanno aperta davanti a me.

        — Quei vestiti sono miei e anche la pistola è mia.

        — Mi scusi, signore, sono il segretario del tribunale e devo stendere il primo rapporto.

        Sembrava un uomo tranquillo, benché i capelli corti e canuti gli dessero un'aria da militare in pensione. Non ricordavo dove avevo comprato quella pistola, proprio lì, alle terme di Bergara, sono stato sul punto di dirgli. Voleva sapere quando ero stato l'ultima volta a Eibar, ma io quel posto non sapevo nemmeno dove fosse. Eibar doveva essere lì vicino, ma io non lo sapevo. Temono Eibar: forse lì gli operai hanno cominciato ad imparare la scienza della loro disgrazia. Mi ha interrogato cercando collegamenti a casaccio, era assolutamente disorientato.

        — Dove ha nascosto la dinamite?

        — Che dinamite?

        — Lei non è anarchico?

        — Sono sempre stato contrario alla dinamite ed inoltre perché mai avrei dovuto nasconderla, se ho permesso che mi arrestassero?

        — Di chi è, in realtà, il nome di Emilio Rinaldini?

        — Né mio né di nessuno che io conosca.

        — Lei è italiano?

        — Sì, sono italiano se ci riferiamo alla geografia. Ma mi ferisce la sofferenza di tutti gli uomini, senza importarmi a quale nazione essi appartengano.

        Sono stato sul punto di menzionare la gran federazione della sofferenza. Ma mi sono reso conto che non scriveva tutto quello che gli dicevo.

        — Dobbiamo portarla in prigione —ha aggiunto con un certo imbarazzo.

        — Non ho niente in contrario.

        Mi hanno legato le mani dietro la schiena. Quando sono passato dalla sala del telegrafo, l'impiegato è rimasto a guardarmi. Un agente mi ha raggiunto e mi ha portato il cappello che era rimasto nell'altra sala, è stato lui a mettermelo. Gliene sono grato perché me lo regalò un commerciante sul treno mentre mi portavano da Marsiglia a Bruxelles, con grande stupore degli agenti, e ci tenevo molto. Non mi hanno fatto passare dal corridoio della parte anteriore, il giudice stava ancora facendo i suoi disegni e non volevano che nessuno toccasse niente. Siamo passati dal giardino con la fontana e abbiamo raggiunto la porta principale, da dove escono le carrozze. C'era gente ai due lati, ma tutti stavano in silenzio, per lo meno io non ho sentito nessun insulto, probabilmente increduli che un giovane uomo dai modi gentili come me potesse essere l'assassino di un personaggio così importante. Mi aspettava un piccolo landò coperto, circondato da una dozzina di agenti a cavallo. A causa della posizione della carrozza, quando mi hanno aperto la porta, mi sono trovato davanti agli occhi l'edificio dello stabilimento balneare. Ho visto la moglie di Cánovas affacciata alla finestra che mi guardava. Se avessi avuto le mani legate davanti, mi sarei tolto il cappello per salutarla. Ma forse l'avrebbe considerato una beffa.

 

 

— Signor Angiolillo, la legge contro il terrorismo contempla i reati commessi con la dinamite e non con la pistola. Ma le caratteristiche della vittima trasformano la polvere da sparo in dinamite.

        Ho riso pensando alla discussione fra gli uomini di legge.

        — Saranno i militari a processarla —mi ha detto durante la sua prima visita il mio difensore, Tomas Gorria. Lui non si presentava in veste di militare, benché fosse tenente d'artiglieria. Era entrato perfettamente nel ruolo che doveva interpretare di fronte a me. Ma dopo il processo, una volta condannato, non mi ha più fatto visita. Deve essere addolorato, forse non ha capito bene il suo ruolo. O non sa come consolarmi.

        — Non ho denaro per pagare il suo lavoro. Ed inoltre, preferirei difendermi da solo.

        — Bisogna rispettare il regolamento, signor Angiolillo. Mi paga lo Stato, Lei non mi dovrà niente.

        Il tenente Gorria era venuto nella mia cella perché il tribunale aveva bisogno di lui, non perché ne avessi bisogno io. Si doveva rispettare il regolamento, aveva ragione. Ricordo che è rimasto a guardarmi negli occhi, come se si stesse armando di coraggio. Ha parlato emozionato.

        — Donna Joaquina de Osma mi ha chiesto di farle sapere che la perdona.

        Ho colto l'occasione per scusarmi:

        — Non ho potuto togliermi il cappello per salutarla, avevo le mani legate dietro la schiena. Glielo dica, per favore.

        Tomas Gorria si è sfregato le mani sui pantaloni con discrezione, era visibilmente nervoso.

        — Io... Io non ho la possibilità di arrivare fino a lei. Lo dirò al capitano Almanza, lui saprà come farglielo sapere.

        Mi sono ricordato di te, Dolors, sebbene non abbia diritto di immaginarti vedova. Neanch'io ho la possibilità di arrivare fino a te.

 

 

Ho pensato che quei rumori venissero dal soffitto. Era il mio primo giorno nella prigione di Bergara e sono stato svegliato molto presto, prima dell'alba, da alcuni colpi. Forse Cienfuegos stava facendo un buco, ogni tanto sentivo dei passi. Sul pavimento della cella c'erano delle pietre, distribuite proprio come solitamente i carcerati in isolamento lasciano le briciole per gli uccelli, qua e là. Le osservavo riflettendo sul fatto che forse lo zoppo mi stava segnalando la data della fuga; probabilmente non ero in grado di capire il messaggio nascosto in quelle forme. Stavo pensando a questo quando ho ricevuto una visita inaspettata.

        — È lui! —ha detto al suo accompagnatore.

        Anch'io ho detto: «È lui!» dentro di me. E' lui per il baffo che si allunga sotto le labbra, quello di cui i miei compagni erano soliti parlare con disprezzo, il criminale che si muoveva spavaldo nel Liceu senza guardie del corpo.

        — Signor direttore, allontani quest'uomo dalla mia vista, non voglio vederlo! —Ho detto categorico e per un attimo mi è sembrato che il direttore l'avrebbe cacciato.

        — E' Lui: Michele Angiolillo. Anarchico sanguinario, conosciuto a Barcellona come Giuseppe Santo, uno degli autori dell'attentato del Corpus Domini.

        Ho risposto con la maggior calma possibile a questo miserabile che non avrei nemmeno dovuto ascoltare.

        — Dovrebbe sapere che io ho condannato quell'attentato.

        Il baffo non ha potuto occultare il vuoto del primo dente vicino al canino quando ha sorriso cinicamente. Non so perché, ma quell'espressione mi ha ricordato un teschio.

        — Adesso intende ritrattare? Lei è un anarchico, no?

        — Il mio gesto la dice lunga su quel che sono. Non credo sia rivoluzionario versare sangue innocente.

        — Ci sono forse degli innocenti, in questa società?

        Questo maiale che applica i principi della politica alla tortura è venuto fino alla mia cella ben preparato. Così, con una certa soddisfazione, ho iniziato a parlare.

        — Ci sono livelli diversi di responsabilità. Lei, per esempio, tortura molti poveracci quotidianamente. Ma benché su tutti i giornali d'Europa il tenente Portas appaia come un torturatore, Lei non è altro che un miserabile sbirro. Io ho tagliato il braccio che guida la sua mano e quella di molti altri come Lei, perché quello era il responsabile di ciò che Lei è solito fare a Montjuich. Altri si occuperanno di Lei, io ho mirato più in alto.

        Per un attimo gli ha tremato il mento. Il suo silenzioso accompagnatore gli ha fatto cenno di uscire con il capo, doveva essere qualcuno del Tribunale di Barcellona. E Portas è uscito precipitosamente, sbattendo la porta con furia, come fosse quella del suo castello.

        Sono rimasto solo con il direttore. Era impressionato.

        — Lei... anche Lei è stato torturato da quell'uomo?

        Questa domanda ingenua, dopo avere avuto Portas di fronte a me, mi ha spaventato come se davvero avessi ricevuto la carezza di un artiglio. Mi ha riportato alla mente il tuo corpo, Dolors, e ho negato con il capo in silenzio, per paura che la voce mi tradisse. Il mio cuore ha incominciato a palpitare all'unisono con i colpi che arrivavano dal soffitto. O forse erano le martellate del mio cuore che rimbombavano all'interno della cella.

 

 

Tomaso sarà stato costretto a denunciarci, non è possibile resistere a Montjuich senza parlare, non devo certo raccontarlo a te. Sapevano che vivevo nella vostra casa, a Jaume chiesero di me ripetutamente. Grazie a quello che ho sentito raccontare da altri so quello che hanno fatto a te, lo so perché me l'hanno detto gli altri. Jaume non mi ha raccontato niente, ha voluto togliere importanza alla tortura. E da te... da te, in realtà, non volevo sentirlo raccontare. Mi vergogno di me stesso.

        Sono sicuro che gliel'avranno detto, sono sicuro che glielo ripetevano tutti i giorni, mentre lo picchiavano, che la sua donna lo tradiva con un anarchico, e che si trovava lì per colpa di chi gli aveva rubato letto e donna, che io ero il responsabile delle bastonate che stava ricevendo... gli avranno detto cose di questo genere per indebolirlo, per metterlo contro i suoi compagni, per farlo cambiare. «Qualunque cosa tu abbia fatto, me ne assumo la responsabilità», mi aveva detto Jaume al porto di Liverpool, sbarcando. Lo avevo ringraziato allora, da un punto di vista politico. Solo successivamente ho capito che in quella frase c'era anche un messaggio privato. Mi parlò di te, a Liverpool e poi a Londra mi raccontò cosa ti era successo... come se sapesse che io non sarei stato capace di chiederti niente. Per questo motivo non prese la parola durante la conferenza stampa tenuta per denunciare quelle torture, lo stesso motivo per cui tu non eri venuta.

        Che cosa vi siete detti sulla nave, Dolors? Avete parlato di me? Avete fatto un patto per non farmi sentire in colpa? Ora mi è più facile fare queste domande, perché so che non avrò mai una risposta. «Grazie, Giuseppe»! mi disse Jaume, «eravamo stufi di stare a Montjuich!», come se non fosse successo niente, o come se fossi stato io a liberarvi dalla tortura.

 

 

 

© Koldo Izagirre
© Traduzione: Roberta Gozzi


www.susa-literatura.eus