Beste hizkuntzetako lanen zerrenda

  Traduzione: Roberta Gozzi

 

 

 

Capitolo 6

 

[...]

Il giorno dopo, in cortile, invece di camminare a coppie o in gruppi di tre come al solito, rimanemmo tutti assieme: non volevano lasciarmi solo, volevano trasmettermi il loro calore. Erano lì, tutti parlavano ma nessuno si rivolgeva direttamente a me. Sembrava avessero paura di dire qualcosa fuori luogo, non osavano chiedermi se avevo bisogno di qualcosa, offrirmi una sigaretta, dirmi che avevano una visita. Per alleggerire l'atmosfera, raccontai loro la proposta del mio avvocato. Tutti risero.

        — Il Papa, in ogni caso, chiederà a Franco che annulli la pena di morte. Roma mi utilizzerà per i suoi interessi. Ma è molto probabile che un regime ultracattolico non presti attenzione alla richiesta del Papa.

        Cominciarono a dirmi di non pensare a queste cose. Il vecchio Generale avrebbe avuto delle giornate molto lunghe. Il nemico doveva essere più preoccupato di noi, quello volevano farmi credere. Come altre volte, fu Mateo a riportarci con i piedi per terra.

        — La sospensione della pena di morte potrebbe essere interpretata più come un sintomo di debolezza del regime che come un gesto di rispetto verso Roma...

        Non si pentì di averlo detto, gliene ero grato, gli ero riconoscente per la sincerità. Rimanemmo muti in una lunga pausa. Eravamo riuniti in mezzo al cortile, avevamo smesso di scaldarci le mani con l'alito. Eccetto Mateo ed io, tutti erano allarmati.

        — Ma non dimentichiamoci che li abbiamo obbligati a mostrare le loro contraddizioni interne! ­ disse non so chi, sicuramente qualcuno che non poteva sopportare la freddezza di Mateo.

 

 

Tutta la prigione stava dalla parte dei prigionieri politici baschi, l'invisibile solidarietà che esiste tra i detenuti si avvertiva più solida che mai nelle grida notturne di chi stava nelle celle di punizione, nelle notizie che ci davano quelli dell'economato, nell'inquieta rigidità dei carcerieri. Benché non ci fosse nessuno con condanne lunghe, in quel momento quasi tutti erano disposti a rischiare la loro vita per la mia. Quelli della cucina ci avevano detto che c'era la possibilità di nascondere delle armi nel camion della spazzatura. Patxi diceva che non potevo andare al mattatoio come un vitello. Dovevamo ribellarci, lottare e morire nella lotta, trasformare la prigione in un olocausto: era il migliore esempio che potevamo dare al nostro popolo.

        — Dobbiamo lottare fino alla fine!

        Fu allora che Mateo si infuriò per la prima volta, dicendo che forse non ci rendevamo conto della facilità con la quale il potere avrebbe manipolato la nostra azione. «Hanno sollevato una rivolta perché il condannato non era in grado di affrontare la morte». Le parole di Mateo zittirono tutti a lungo.

        — Il nostro popolo sa che noi siamo dei gudari! Qualunque cosa facessimo sarebbe capita e accettata, la manipolazione del Generalissimo non attecchisce nella nostra terra!

        — Mateo ha ragione ­ dissi bruscamente, stroncando la proposta di Patxi. - Con questo processo la nostra lotta ha superato i confini del Paese Basco, forse non tutto il mondo, ma almeno una parte ci guarda. Ora dobbiamo mostrare come muoiono i veri rivoluzionari. È toccato a me, ma sarebbe potuto essere chiunque altro. Non dovevamo forse far vedere al popolo quant'è feroce il nemico?

        I giovani che sarebbero diventati militanti, il paese, il mondo, tutti avevano gli occhi puntati su di me. Il Generalissimo mi offriva una vetrina straordinaria, se io avessi avuto il coraggio sufficiente per approfittarne: sarei dovuto morire tra gli artigli del nemico, come giustamente diceva Mateo. Avrei dovuto mostrare al mondo la risata sadica del gran ratto. Ed il mondo si sarebbe allarmato.

        Gli altri non sapevano che, lo stesso giorno in cui mi avevano comunicato la sentenza, i secondini si erano riuniti in una stanza dei laboratori che erano sempre chiusi, per pulire e lubrificare un catafalco di ferro che da anni era conservato tra i sacchi. Non sapevano che sarebbe stata un'agonia che non assomigliava affatto a quella della fucilazione, ma che mi attendeva la forca spregevole, il crudele patibolo, la gogna insultante, la garrota vile, proprio come Angiolillo.

        Tenni per me quello che avevo letto nel biglietto lasciatomi dal detenuto comune, non osai dire niente agli altri. Forse non era vero, forse era un tiro mancino dei secondini per spezzarmi il morale. Ma quella possibilità era molto remota, una voce interna mi diceva che il Generalissimo non voleva darmi una morte militare, che mi voleva degradare al livello di un delinquente comune: non mi avrebbe permesso di andare fino alla parete del cimitero mano nella mano con i patrioti morti.

 

 

Non mi arrampicai sulle sbarre, ognuno di quei «Viva Euskadi!» che si sentivano lontano mi causava dolore, mi feriva in profondità. La pena di morte eseguita con la garrota avrebbe dimostrato quant'è barbara la Spagna, ghigliottina non affilata, patibolo crudele, sedia elettrica del Medioevo, cerimonia dell'Inquisizione. Ed io ero l'agnello sacrificale. La testa del gran ratto si vedeva sempre più frequentemente nel buco della latrina e dovevo continuare a pensare a te per poterlo guardare senza arretrare. Avevo bisogno dell'esempio dell'idealista che nella prigione di Bergara aveva salito gli scalini del patibolo con orgoglio. Pensavo a te. Pensavo a Txabi. Io non volevo morire. Avrei voluto essere già morto. Come il mio compagno di commando crivellato dentro un'automobile sportiva rubata, con in mano una vecchia pistola che avrebbe dato inizio alla nostra terza guerra.

        Mi faceva paura il patibolo, mi spaventava il fatto che da quel «Evviva i proletari del mondo» fino al momento della morte non ci fosse una scarica di un secondo, bensì l'asfissia di lunghi minuti. Ai gudari non viene applicata la garrota. Con noi non c'era quella tradizione, quella era la fine riservata agli anarchici. Mi avrebbero vestito con una tunica in modo che la sporcizia dei miei sfinteri non rovinasse l'estetica della crudeltà? Sarei morto con la lingua penzoloni, la bava alla bocca, gli occhi fuori dalle orbite, segni di panico sul viso cianotico? Io non volevo morire così, Lilio, ma allora non ebbi il coraggio di parlarne con gli altri, loro non sapevano quello che sapevo io, qualcosa che provocava panico. Lo tenni per me, terrorizzato, ed è stata una delle azioni più belle che abbia mai portato a termine. Condivisi quel segreto solo con te.

        Mi alzai dalla branda, lanciai bruscamente la sigaretta e mi diressi verso il ratto sudando freddo. Non avevo ancora fatto due passi che era già fuggito, il vigliacco. Scaricai un cazzotto sulla parete, per farmi male. Riaprii la mano insanguinata facendo forza contro il muro, non mi ero rotto niente. Cercai con le dita un nome, come avevo fatto sulla sporca parete del carcere di Bergara. Non lo trovai. Allora, con un uncino che tenevo per aprire la porta della cella, incisi profondo il tuo nome piangendo di rabbia. Ti chiedevo forza un'altra volta, era la tua mano quella che di nuovo incideva un nome sulla parete della cella numero tredici della prigione di Burgos, affinché il successivo inquilino della morte trovasse la forza per sognare. Perché i nomi sulla parete di una cella sono come un compagno che si siede al tuo fianco.

 

 

© Koldo Izagirre
© Traduzione: Roberta Gozzi


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