Capitolo primo

 

—1—

 

Onofre ha trascorso due anni lontano da casa, solcando i mari, e al ritorno in paese ha portato con sé il freddo del grande mondo. È l'inverno del 1952, ed erano anni che non se ne vedeva uno così rigido. Il cielo sembra cadere in una nevicata lenta e incessante. Tutto è ricoperto da una leggera mano bianca che si estende fino alla spiaggia e alle isole. I gabbiani più vecchi cercano riparo tra le strade interne del paese, mentre quelli più giovani non sanno far altro che nascondersi dietro le loro code. Per Onofre anche l'amicizia con Luis si è congelata. Sente il freddo attraversargli la carne, un freddo tagliente, d'acciaio. Anita se n'è andata di casa con una debole scusa: «La nonna è malata e a Bilbao hanno bisogno di me.» Nemmeno lei ci crede. Bugie.

        Onofre non ha avuto il coraggio di dirle «non andartene», o qualcosa del genere, o di confessarle: «Senti, ti desidero molto, andiamo a letto.» Da tempo non c'è niente del genere fra di loro. Per questo Onofre adesso è solo nel suo letto, sprofondato nella solitudine, misura il suo corpo chiamando il sonno e ricevendo come risposta solo il sibilo del vento che fuori soffia con forza.

        Bussano alla porta e Onofre si alza borbottando. «Chi diavolo sarà a quest'ora, in una notte da lupi come questa.» Prima di arrivare alla porta sente bussare di nuovo, con un'insistenza che lo insospettisce. Si ferma un attimo, tende l'orecchio, tutti i sensi allerta, come se prima di aprire avesse bisogno di un segnale. «È uno solo, Onofre» dice a se stesso e gira la chiave nella porta.

        Si apre uno spiraglio e il vento gli gela i piedi. Abbassa lo sguardo. Gli sembra che il bosco sia entrato in casa sua. I fiocchi di neve che si sciolgono sul pavimento e il soffio gelido che gli colpisce la fronte gli danno l'impressione che si tratti di una visita dall'altro mondo.

«Onofre» il visitatore pronuncia un'unica parola, con una voce che gli sale dai polmoni, e il nominato inizialmente sente solo l'eco di qualcosa lontano. Solo eco. Gli echi si aprono una strada nei suoi ricordi.

        «Maledizione, per tutti i diavoli! Maledizione, Juan!» dice Onofre esultando e stringendo in un abbraccio il visitatore. Il vento sbatte la porta come se volesse scardinarla e lui invita il vecchio amico a entrare.

        «Ti credevamo morto, morto in guerra» gli dice mentre accende la luce e lo invita con un gesto a sedersi sul divano.

        «Un goccio?» chiede, con la bottiglia già in mano.

        «Come no!» risponde Juan, mentre si toglie il pesante cappotto, prima di sedersi. Onofre si spaventa; il suo amico porta, appeso alla spalla, un enorme fucile.

        «Non sono morto, Onofre. Sono passato alla resistenza, sono un maquis e per questo sono venuto qua, a casa tua; ho bisogno d'aiuto.»

        Maquis. Al solo sentir nominare quella parola, appaiono sulla sua pelle le dune del deserto. Paura. Onofre non è una gallina, ma se assomiglia a un volatile questo non è certo il gallo. Torna alla sua mente la fucilazione dopo l'affondamento di una nave mercantile tedesca a opera di un sottomarino inglese nelle acque di Somorrostro. Non è un ricordo piacevole. Juan, invece, irradia tranquillità; è qualcosa che ha origine tra le sue sopracciglia. Sì, nelle sue sopracciglia che sono un fitto bosco autunnale. È l'effetto del colore che prende il sole quando si riflette sulla neve. Invecchiato di dieci anni, nessuno di coloro che l'hanno conosciuto allora riconoscerebbe, in quest'uomo, Juan, nemmeno dalla voce. Nella sua gola ci sono resti di mitragliatrice.

        «E cosa posso fare io?» le viscere riscaldate dall'alcool, Onofre inizia a parlare.

        «Vorrei rimanere qui, finché non trovi una barca sulla quale poter fuggire in Francia.»

        «E come diavolo pensi di rimanere qui, porco mondo! Se i gendarmi ti riconoscono, arresteranno anche me.»

        In silenzio e allungando le gambe, il maquis sprofonda ancora di più nell'accogliente grembo del divano.

        «Non lo so, Onofre, tu sei sempre stato un tipo in gamba, troverai una soluzione.»

        E così accade. Juan s'infila nel morbido nido che Onofre ha lasciato caldo nel letto, mentre quest'ultimo esce di casa.

        Imprecando e ansimando, cammina a passo veloce, attraversa la via principale, da un portico all'altro. Il numero tredici. Bussa con un unico colpo secco di batacchio. Onofre sa che Martin, il macchinista del treno, ha il sonno leggero. Gli deve un favore e lui adesso viene a chiedergliene un altro in cambio. È una cosa facile da fare. È quanto dice all'uomo che appare sulla porta strofinandosi gli occhi.

        «Martin, stamattina, al ritorno, quando passi dalla curva dello Zoppo, rallenta la locomotiva; aspetta dieci secondi e poi riportala alla velocità normale.»

        «D'accordo, lo farò, ma che storia è questa, a quest'ora?»

        «Tu fai quel che ti ho detto, d'accordo? E non una parola!»

        Onofre entra in casa dicendo: «Che freddo!» e cerca di scaldarsi le mani con il fiato; si siede sul divano e s'immerge nel russare del suo amico, con lo sguardo perso, rimuginando dentro di sé. Improvvisamente fissa lo sguardo sul fucile. Lo prende tra le mani con attenzione e lo nasconde sotto il materasso, all'altezza dei piedi. Juan avverte il movimento del materasso e il ritmo del suo russare cambia. Nient'altro. Onofre rimane a fissarlo, in piedi, finché sente prossimo l'arrivo dell'alba, momento in cui sveglia Juan.

        «Mettiti questo vestito» gli dice. L'amico obbedisce all'ordine in silenzio.

        «Andiamo.»

        «Dove?»

        «Tu, al treno.»

        «Al treno?»

        «Sì. Come diavolo pensi di arrivare a casa mia, se non in treno?»

        «E il fucile?»

        «Nascosto sotto il materasso, andiamo, alla svelta.»

        Juan non replica. Onofre percorre per la seconda volta la via principale. Juan nota che sulla spalla gli manca il fucile, è perplesso.

        Dopo aver percorso un mezzo chilometro di strada in salita, i due amici si allontanano verso i campi e da lì cominciano a scendere.

        «Attenzione a non sporcarti il vestito, sarebbe strano che tu arrivassi dall'Inghilterra col sedere sporco di fango.»

        «Dall'Inghilterra?»

        «Proprio da lì!»

        Subito dopo entrano nella galleria del treno. Nascosti in una rientranza scavata nella parete irregolare, Onofre spiega all'amico il suo piano.

        «Tu arrivi in treno dall'Inghilterra, dove abbiamo studiato assieme, vieni a trovarmi. Hai capito? Arrivato in stazione, scenderai allegramente e lì ci sarò io ad aspettarti; mi rivolgerò a te in inglese, davanti a tutti, e tu mi risponderai con le quattro parole che conosci: Hello, good morning, eccetera.» Il fischio del treno obbliga Onofre a tacere e il serpente fumante entra nella galleria. Sulle rotaie si amplifica il rumore di mille zampe impacciate, trac-trac-trac.

        «Non ho bagagli. Come cavolo pensi che possano credere che arrivo dall'Inghilterra?»

        «Questo stesso treno, al ritorno, fra una mezz'ora, rallenterà l'andatura. In quel momento sali sull'ultimo vagone. La faccenda dei bagagli la sistemo io.» Onofre se ne va.

        La soluzione sembra abbastanza facile. Si reca alla stazione ad aspettare il primo treno del mattino; indossa il suo abito più elegante.

        «Senti, Tomas, su questo treno arriva un mio amico dall'Inghilterra, i suoi bagagli invece arriveranno domani o dopodomani, puoi starci attento tu, per favore?»

        «Non preoccuparti, Onorfe, ci penso io.» Il fattorino zoppo della stazione, come molti baschi, non sa pronunciare la sillaba fre.

        Nella stazione si sente un lungo fischio. Appresso, una scura colonna di fumo, nuvole di vapore, lo stridere dei freni, e il treno si ferma. In coda, timoroso, Juan sporge la testa. A quest'ora non ci sono gendarmi. Lui non lo sa e la paura lo attanaglia.

        Juan e Onofre si sciolgono in un abbraccio prolungato ripetendo numerose volte hello, hello, sotto lo sguardo inebetito delle poche persone mattiniere che popolano la stazione.

        «Ricordati, eh, Tomas, i suoi bagagli! Come on, John.» Ha appena assegnato un nuovo nome al suo amico.

        Il nome si pronuncia allo stesso modo anche in basco e così le pettegole non avranno difficoltà a diffondere per tutto il paese la notizia dell'arrivo del visitatore. Infatti, per quando Onofre lo porta al Kasino,1 a mezzogiorno, tutto il paese sa già del suo arrivo.

        «Onorfe, è questo il tuo amico americano?» il cameriere provoca Onofre. Meno male che il vermouth che gli ha ordinato placherà la sua rabbia.

        «Un bel posto» dice Juan guardando fuori.

        «Ma sei diventato matto? Sei inglese, hai capito? Inglese! Diglielo al cameriere, maledizione!»

        «I'm not american, english» dice Juan al cameriere che sta servendo loro i vermouth al tavolino. Aggrottando le ciglia, il cameriere si rivolge a Onofre: «Che cosa dice?» Il capitano della marina mercantile non risponde. Onofre non dà nessuna spiegazione, finché una coppia di agenti della Guardia civil non entra nel Kasino per l'abituale aperitivo.

        «Abbiamo navigato insieme prima della guerra, durante le esercitazioni; è di Liverpool.» I due gendarmi chiedono una traduzione simultanea.

        «Inglese è» spiega loro il cameriere.

        «Dice che è inglese.»

        Gli agenti aggiungono che ­ non per niente ­ ma comunque avrebbero piacere di vedere i documenti del nuovo arrivato, e Onofre, con belle maniere, gli risponde che in Inghilterra nessuno si porta appresso i documenti quando esce in un paesino come quello, ma che, in ogni caso, sono a casa sua e, se proprio ci tengono, possono ritornare il pomeriggio e loro saranno sicuramente di nuovo lì a giocare a carte e così potrà mostrare loro il passaporto del suo amico. Juan è esterrefatto. Onofre sì che sa parlare! Gli agenti se ne vanno dopo aver aggiunto: «Vogliate scusarci» e un ridicolo «Gu bai».2 Oltre la finestra si vedono dei grossi alberi, che il vento piega quasi fino a terra per poi raddrizzarli, ripetutamente. Oltre, il mare sterminato.

        «Non so come diavolo potrai partire con questo temporale» dice con tranquillità Onofre, mentre Juan, invece, s'infuria.

        «Tu sì che hai le palle! Hai detto passaporto?» tra i denti. «E da dove lo tiriamo fuori un passaporto inglese?»

        «Tu calmati!» e Onofre inizia a parlare in inglese senza interrompersi. Juan sta al gioco, non gli resta altra scelta. L'amico ogni tanto dice qualche parola e Onofre continua con il suo monologo; i frequentatori del locale sono tutti a bocca aperta.

        Pranzano a casa, ma il cibo l'hanno ordinato al Kasino. «Non tutti i giorni arriva il tuo miglior amico dall'Inghilterra, che diamine, un giorno è un giorno e il 31 di dicembre è san Silvestro!» ha detto al cameriere quando gli ha ordinato il pranzo.

        «Sei preoccupato per il tipo dei baffi?» chiede Juan alzando il ciglio e fermando per aria il percorso della cucchiaiata di zuppa di pesce.

        «Mangia pure tranquillo, devo mostrarti una cosa.» Onofre si alza da tavola e si allontana verso la sua stanza. Ritorna subito dopo con il braccio in alto e con un piccolo quaderno stretto nella mano destra, in modo che Juan lo veda. «Il tuo passaporto, John Huxley, scapolo di quarantadue anni e residente a Liverpool, al 15 di Queen road.» Appoggia il libretto verdognolo sul tavolo con la soddisfazione del vincitore.

        I giorni successivi sono per Onofre i più felici della sua vita. Si dà molto da fare per accompagnare di qua e di là il suo amico, che in paese chiamano già Jon l'Inglese. Salutano calorosamente anche i gendarmi, da quel pomeriggio che sono tornati al Kasino per controllare il passaporto. Veramente avevano guardato storto Juan, dubitando che realmente fosse la stessa persona della fotografia, ma erano passati dieci anni da quando aveva fatto quel passaporto e, dopo dieci anni, era impossibile che fosse esattamente uguale; gli agenti sembravano convinti e ci credevano perché lui, Onofre, era una persona per bene, e da allora li avevano lasciati in pace. Nonostante questo Juan, dentro di sé, non è tranquillo. Uno dei gendarmi lo guarda di traverso e ogni volta che gli dicono gu bai, avverte un tono di scherno in quel saluto. Onofre invece si sente molto felice, sempre con Juan al suo fianco, di qua e di là, senza smettere di dargli spiegazioni in inglese.

        Finché arriva il giorno in cui il maquis deve andarsene: Genaro, che davvero sa l'inglese, è tornato dopo mesi di navigazione e rischia di mandare al diavolo tutta la messinscena.

        «Signor Genaro» dice il cameriere del Kasino, «vi lamentate sempre che non avete nessuno con cui parlare inglese, vero? Bene, adesso qui avete un inglese, Jon, quello che sta con Onorfe.»

        Genaro si dirige immediatamente al loro tavolo.

        «Andiamocene» dice tra i denti Onofre all'amico, e si alzano.

        Lasciano Genaro con un palmo di naso, imprecando in inglese. E così finisce la felicità di Onofre. Nessuno saprà che in quelle interminabili conversazioni in inglese, in quei lunghi monologhi, tanto al Kasino come per strada, Onofre ne diceva di tutti i colori di quelli che si avvicinavano o passavano vicino a lui, in inglese. E così si era preso la sua vendetta, lentamente, senza perdonare nessuno, durante quei quindici giorni che Jon l'Inglese aveva passato in paese. E tutte le volte che Juan, con il suo scarso inglese raffazzonato, gli chiedeva cosa stesse dicendo, lui gli rispondeva con la gioia infantile di chi, improvvisamente, dopo essere stato umiliato per tutta la vita, si sente vincitore.

        «Cose mie, John, cose mie.»

 

 

—2—

 

Durante i quindici giorni che Jon l'Inglese trascorre in paese, un doloroso raggio di dubbio intorbidisce la felicità di Onofre, impedendo che sia piena. Tutte le volte che guarda il porto, lo punzecchia la domanda su come realizzare la fuga. E se è vero che è stato l'arrivo di Genaro a rendere urgente la partenza, proprio quest'ultimo ha fornito anche la soluzione al problema.

        Lo yacht di Genaro, oltre a essere la migliore imbarcazione del porto, è anche una vecchia conoscenza di Onofre. Durante le gite estive, quelle allegre gite di una volta, aveva avuto modo di conoscere bene l'Askada; una balena in quanto a fermezza, uno squalo per rapidità e maneggevolezza. E così, per la fuga, propone a Juan «Questa barca.»

        «Anche tu verrai con me, altrimenti mi vuoi dire come diavolo me la cavo da solo?»

        È vero, però lui non è disposto ad andare fino a Donibane o a Getaria, nemmeno per tutto l'oro del mondo.

        «Io ti aspetterò sulla barca, al molo che c'è dopo la galleria dell'altra volta, tu farai finta di andartene in treno; poi rimarrò con te cinque minuti, il tempo necessario per insegnarti come manovrare il motore e il timone; da lì in poi ti dovrai arrangiare da solo.»

        Entrambi trascorrono la vigilia della fuga senza poter chiudere occhio. Onofre impartisce a Juan lezioni elementari di navigazione e quest'ultimo trema per la paura. Al mattino, quando escono di casa, sono due ombre irrequiete. Mentre Juan s'incammina verso la stazione, Onofre dirige i suoi passi al porto. Con gli stivali di gomma, l'impermeabile, la gamberana e la cesta, sembra davvero uno che va a pescare gamberetti, e così dice ai pochi pescatori che incontra: «Sì, per gamberetti.» Per fortuna, si annuncia una bella giornata; in lontananza l'orizzonte inizia a tingersi di rosso.

        Con lo stesso cappotto che indossava il giorno che è arrivato in paese e un voluminoso rigonfiamento sotto il braccio, Juan cammina a testa bassa verso la stazione. Anche i tre o quattro prigionieri di guerra che stanno lavorando sui binari e l'agente che li vigila sentono in lontananza lo stantuffare protervo del treno. Juan vede anche l'altro agente che cammina lungo le rotaie. Sul binario ci sono una mezza dozzina di uomini, tutti che lo osservano. «Non spaventarti, sono mezzi addormentati e non si accorgeranno di niente.» Il treno si ferma fra sbuffi di vapore e lui sceglie il vagone sul quale non è salito nessuno, il primo, quello che riceve in pieno i fumi della locomotiva.

        «Gu bai» gli dicono da lontano i lavoratori prigionieri, con un sorriso che scivola via dalle loro labbra. Questa volta il macchinista non sa niente e sarà lui a dirglielo. «Quando arrivi alla galleria rallenta, e non guardare indietro, maledizione, altrimenti ti faccio secco» questo deve dire al povero Martin.

        Onofre sale a bordo della sua modesta imbarcazione, sotto lo sguardo di alcuni pescatori mattinieri. Lo hanno sempre considerato un po' matto, e per l'ennesima volta commenteranno: «Non è completamente a posto! Tanti anni in quel maledetto mare, una volta è addirittura naufragato!» «Le solite storie.» Comincia a preparare l'imbarcazione, trafficando al suo interno, la sigaretta stretta fra le labbra. Quando esce dal porto, la nebbia non si è ancora alzata. Meno male che Genaro tiene il suo bellissimo yacht nella cala, altrimenti tutti saprebbero che è stato lui ha portarlo via. Nella baia non si vede nessuno, in qualcosa per lo meno la fortuna lo aiuta. Mentre dalla barca sta salendo sullo yacht, sente il lungo fischio del treno che trafigge la mattina.

        «Sta arrivando e io sono ancora qui!»

        Odia profondamente se stesso perché sta parlando da solo, come i vecchi. Per fortuna il bellissimo Askada non lo tradisce. Risponde al primo colpo, dolcemente, quasi senza far rumore. «È un peccato dover portare questa barca fin dall'altra parte, porco mondo, sì, maledizione.» Dirige l'Askada verso il molo.

        La locomotiva, che chiamano Isabelita, entra nella galleria. Poi Martin frena, dolcemente. Juan l'ha avvisato un'ultima volta. «Che non ti venga in mente di guardare indietro, se ci tieni alla pelle.»

        Il lungo verme quasi si ferma nello stesso punto dell'altra volta. Le luci frontali della locomotiva illuminano i binari. Op! Juan salta a terra. Martin fa gridare d'allegria la Isabelita; aumenta la pressione del vapore, molla il freno e attiva il fischio, in un attimo la galleria si riempie di fumo. Così, anche se lo volesse, non potrà vedere quel maledetto tipo col fucile, sebbene sospetti di chi si tratti. Ma a lui che importa! «Questa sì che è bella, Martin, la migliore di tutta la tua vita: un tipo col fucile!» Juan rimane immobile, nascosto dal fumo, finché vede allontanarsi la coda del lungo verme. Poi, di colpo, giunge il silenzio, scivolando sulle pareti, strisciando per terra, galleggiando nell'aria, silenzio in tutto il tunnel. Fuori, la mano della luce del giorno si posa sulla terra, facendo scomparire la rugiada dei campi. Juan s'incammina. Gli sembra di sentire altri passi che paiono voler calpestare il rumore dei suoi. Si ferma e anche quelli dell'altro lo fanno. «Ono» chiama e la galleria no-o-o-o-o moltiplica in eco quel nome.

        Onofre invece è al molo, nascosto nella nebbia che l'alba vorrebbe ma non riesce a squarciare. Il fischio del treno che ha già sentito più volte e l'avanzare della Isabelita, che si fa più zoppicante in prossimità delle curve, gli fanno pensare che il suo amico sia già lì. Quello che non riesce a capire è invece un terribile, improvviso boato. Proviene, greve, dalla zona della galleria, e poi scompare, come se rincorresse la coda della Isabelita, svanisce lasciandogli nelle narici una traccia di polvere da sparo. Onofre saprà solo successivamente qual è l'origine di quel fragore.

        Juan, che appare correndo, gli ordina sudato di mettere in marcia il motore dell'Askada, senza dire nemmeno una parola sull'esplosione. Sebbene puzzi di polvere da sparo, Onofre non gli chiede niente. Ne ha già abbastanza col dovergli mostrare in tutta fretta le cose fondamentali sul motore e indicargli la strada per andarsene.

        Insegnargli come manovrare l'Askada richiede a Onofre più tempo del previsto. Quando si abbracciano, Onofre osserva per l'ultima volta il cappotto dell'amico. Nella testa sente un tac, come se all'improvviso arrivasse la pace. Mette sotto chiave le paure nella stiva. Salta dallo yacht al Maskoltxu, la barca che ha portato a rimorchio; il sole si è già allontanato dal profilo dei monti.

        «Non dimenticarti di scrivere... in inglese, maledizione!»

        «Te lo prometto» gli risponde. Poi, con voce da pazzo, dall'Askada manda un ultimo saluto al suo amico che si allontana in barca.

        «Guuu bai, guuu.»

        Onofre deve assolutamente far finta di pescare gamberetti e si dirige alla zona dove stanno costruendo il nuovo tratto della strada ferrata, alla ricerca di un alibi. I gamberetti si avvicinano abbondanti alla sua gamberaia, come se le mani di uno spirito dell'al di là li spingessero verso di lui. Lo salutano da terra.

        «E l'inglese?» il tributo che bisogna pagare in un paese per il saluto è sempre l'informazione.

        «Stamattina è andato a Bilbao e a mezzogiorno ripartirà per l'Inghilterra.»

        «Così starai in pace!»

        «Sì!» risponde felice come una pasqua.

        «Ritorni a casa giusto per il pranzo, Onofre» dice a se stesso mentre lega la barca, facendo finta di non vedere i curiosi che lo guardano dall'alto. Risale la strada più contento che mai, il fatto di portare al braccio una cesta colma di gamberetti gli dà la forza di salutare tutti allegramente, come non faceva da tempo. «Per pranzo? Questi gamberetti cotti, del vino bianco ed è pronto.»

        Ma il vino diventerà aceto prima di quanto lui pensi. Quando entra in casa, vi trova Anita, appena arrivata da Bilbao.

        Nel vedere la moglie, l'uomo si appresta ad abbracciarla; gli avvenimenti degli ultimi giorni lo hanno lasciato assetato del calore di un abbraccio, ha bisogno che il fiato di un'altra persona asciughi le sue ossa, bagnate fino al midollo dalla nebbia mattutina, gli brucia la carne dei polsi. Per tutto questo e perché nello sguardo di Anita risplendono braci come stelle, e gli abiti che indossa, appena comprati in città, le modellano il corpo come nemmeno le mani del più abile scultore della Grecia classica potrebbero fare.

        «Cos'è questo disastro?»

        A Onofre cade il mondo addosso. Gli occhi di Anita sono ancora più belli, accesi dalle fiamme della rabbia.

        «Calmati, ti racconterò tutto.»

        All'uomo è passata la voglia di pranzare in casa. Anita ha iniziato a ordinare e ripulire, praticamente senza togliersi gli abiti nuovi. All'improvviso, l'uomo appoggia le mani sulle spalle di lei, da dietro. La donna sente una scossa elettrica percorrerle le vene. Le labbra di Onofre inumidiscono la pelle perfetta del collo di Anita.

        «Su, non fare lo stupido, esci un momento finché non finisco di sistemare qua.»

        L'uomo interpreta le parole come una promessa, anzi, come il giuramento di una dea. Riprendendo una vecchia abitudine dimenticata, con le mani in tasca e sulle labbra quello che vorrebbe essere l'eco del gorgheggiare dei passeri, si avvia verso l'Ikaztegieta, la taverna. «Pranzerò lì, per tutti i diavoli!»

        Nell'Ikaztegieta la gente è in subbuglio, sembra un pollaio.

        «Sì, davvero» sente dire, «il gendarme, quello dei baffi, quello che assomigliava a un lupo, morto, stecchito.»

        Si siede e Luzia, come da tempo non faceva, gli serve una brocca di vino.

        «Quando?» le chiede con voce soffocata.

        «Stamattina.» I suoi occhi sono ancora inchiodati a quelli verdi di Luzia, in attesa di ulteriori particolari. «L'hanno trovato sui binari.»

        Immediatamente l'eco dell'esplosione torna alla mente di Onofre. Avverte di nuovo nelle narici l'odore che portava con sé quel frastuono, odore di polvere da sparo, e nel più profondo di se stesso si accende una luce. Dev'essere stato Juan a uccidere il gendarme, non ci sono dubbi. Un sudore freddo bagna Onofre. Se ne va senza finire la brocca di vino, a casa.

        «Quel bastardo, figlio di puttana di Juan, non gli viene in mente nient'altro che far fuori un gendarme! E ovviamente, quello che ci guardava sempre di traverso; e meno male, perché gli altri non sospetteranno niente; quello pericoloso era il morto, calmati. E con Anita, neanche una parola.»

        Non ha, in ogni caso, l'opportunità di parlare con Anita, perché quando rincasa la trova in compagnia. Una coppia di agenti della Benemerita.

        «Buon giorno, signor Onofre...»

        Si rivolgono a lui con il consueto tono cordiale. Siccome non ha fatto la guerra, lo considerano uno che sta dalla loro parte, poiché tutti gli altri, in paese, o sono prigionieri o sono nazionalisti, eccetto tre o quattro «brave persone». E così il signor Onofre viene a sapere ciò che è successo e inoltre che non sono venuti perché sospettano di lui, ma per sapere dov'è l'altro, l'inglese. Onofre risponde loro con tranquillità che se n'è andato quella stessa mattina, che si sono alzati insieme e che Anita si è occupata di tutto, ha preparato una colazione all'inglese, con uova, pancetta, caffè nero e fagioli rossi.

        «Fagioli per colazione?» replicano gli agenti, e Anita fa segno di sì con la testa, con i piatti ancora da lavare come testimoni e che, una volta alzatisi, siccome gli addii sono sempre dolorosi, invece di accompagnare il suo amico alla stazione ha preferito andare a pescare gamberetti.

        «Voi non avete ancora imparato a mangiarli?» gli chiede, e gliene offre alcuni da portarsi via, se vogliono.

        «Lei ha dei testimoni?»

        Ma certo, ha tutti i testimoni che desiderano: al porto e lungo le rotaie del treno. I due agenti si sono mantenuti sempre sull'attenti, picchiettando leggermente il calcio del fucile che portano appeso in spalla. Vedendoli così, Onofre ricorda di nuovo il boato. Questi poveracci non sanno la verità.

        «È caduto sulle rotaie» gli dicono, e forse qualcuno l'ha spinto.

        «John Huxley ha preso il treno. Un bicchiere di vino?»

        No, grazie, loro non bevono, e se ne vanno, con i fucili rigidi in spalla e la mano sorreggendo il calcio per alleggerirne il peso. Improvvisamente, nella mente di Onofre, si fa strada una birichinata da bambino dispettoso. Esce di corsa sulle scale e vede la coppia di gendarmi ormai in strada.

        «Ah, signori» dice loro in castigliano, e questi girano la testa e guardano verso l'alto, con gli occhi quasi bianchi, «quello che invece beveva era il morto, no?»

        È sicuro di aver colpito nel segno, dicendo che al morto piaceva bere.

        «Senta...» la protesta non ha forza. Onofre li ringrazia per aver accettato così facilmente la sua innocenza. Ha appena finito di pensare «adesso i gamberetti e dopo...» quando vede gli occhi di Anita. «Merda, e dopo niente.» Onofre sa che ha chiuso la porta di casa e ha aperto quella della discussione. Mette i gamberetti a cuocere in acqua. «Anche a costo di pranzare più tardi, questi gamberetti non andranno persi.» Ha conosciuto giorni peggiori.

 

 

—3—

 

Con una lettera firmata «John Huxley» in una mano e nell'altra una Chesterfield quasi finita, Onofre ricorda quanto successo sei mesi prima. Non ha voglia di togliersi il mozzicone dalle labbra e questo lo obbliga a leggere con l'occhio sinistro socchiuso. Comincia a tossire e Anita immediatamente lo riprende.

        «Un giorno o l'altro soffocherai con una di quelle schifose sigarette in bocca.»

        La lettera lo tranquillizza poiché sei mesi prima, quando l'agente della Guardia civil fu trovato morto sui binari del treno, lo stesso giorno in cui Juan era fuggito, tutti i sospetti erano ricaduti sul suo amico e il fatto era sulla bocca di tutti. Gli sguardi sospettosi dei gendarmi, la sua inquietudine interiore, le spiegazioni che si era visto costretto a dare ad Anita, lo avevano portato a chiedere nuovamente di imbarcarsi. A casa, sognava che all'alba bussassero alla porta e che venissero ad arrestarlo. «Lei è accusato di omicidio.»

        Ma lui non era un assassino. Adesso, appena rientrato in paese, a casa ha trovato quella lettera che lo aspettava. Solo ora può leggere ciò che è arrivato mentre lui stava navigando e che, se sua moglie gliel'avesse spedita, lo avrebbe tranquillizzato.

        In una busta c'è una fotografia e Jon dice che è tornato al suo lavoro di maestro elementare e che nella foto lo si può vedere con tutti i suoi alunni. Nella lettera ringrazia, in inglese, il sindaco, il capo della Falange e il brigadiere. In quest'ultimo nome Onofre crede di trovare il significato della lettera. Saluta Anita, senza togliersi la sigaretta dalle labbra.

        «Ma esci in maniche di camicia?» lo rimprovera.

        Infilata la giacca, si dirige in caserma, convinto di aver capito ciò che Juan voleva dirgli nella lettera senza esprimerlo a parole. Cammina leggero, pensando che la lettera e la fotografia saranno un unguento miracoloso per gli agenti, attraversa la via principale e un'auto gli suona il clacson. «Siamo sempre più moderni» pensa mentre riconosce chi conduce quell'automobile: Luis, sulla sua Haiga nuova.

        Lasciando da parte la verità ufficiale, all'improvviso sente il bisogno di chiarire a se stesso quanto successo. Entra nell'Ikaztegieta. Come aveva fatto quel mattino dopo la discussione con Anita.

        «Una brocca» ordina.

        Juan è entrato nella galleria e ha lasciato passare il treno. Silenzio, ha cominciato a camminare e ha sentito il rumore di altri passi sopra i suoi. Sapeva chi lo stava seguendo. Il maledetto baffuto. Ha sfilato il braccio destro dal cappotto, si è tolto il fucile dalla spalla e ha rimesso il braccio nel caldo rifugio. Un metro più avanti, c'è un lucernario quadrato nel soffitto della galleria; ha percorso questo tratto di corsa. Per un istante il suo inseguitore è riuscito a vederlo. Poi Juan si è fermato, in attesa che l'altro passasse sotto il lucernario.

        Onofre chiede un'altra brocca di vino bianco, dopo essersi acceso l'ennesima Chester. Vuole immaginarsi la scena. Juan è lì, dentro la galleria, nascosto nell'ombra, esamina il fucile e lo punta leggermente più a sinistra, all'altezza del cuore. Un po' più in là, un respiro affannoso e rumori di passi, impacciati e pesanti, tra le pietre e il ferro. Il suo inseguitore porta degli scarponi, pesanti, e anche un pesante carico. I pochi raggi che filtrano dal lucernario creano riflessi argentati sulle rotaie lucide. Negli angoli cresce il muschio, divorando la scarsa luce e bevendosi il tremulo gocciolio delle infiltrazioni. Il braccio di Juan, invece, sostiene l'arma senza tremare. L'inseguitore appare sotto il lucernario. È il gendarme, quello coi baffi.

        Juan ha sparato, pum! Il baffuto è caduto morto, lì, nel quadrato di luce formato dal lucernario. A Onofre sembra addirittura di vedere il tricorno, la vernice brilla.

        «Luzia, quant'è?» chiede Onofre alzandosi, e il non sapere se i prezzi sono aumentati in questo suo periodo di assenza lo fa sentire ancora di più un estraneo.

        «Cinque reali.»

        Lascia la moneta sul tavolo. Sicuramente ha preso il cadavere e l'ha collocato sui binari in tutta fretta ma con attenzione, in modo che le ruote del treno gli passassero sul petto, poiché lì c'era il foro del proiettile, come indicavano le bruciature sulla giacca. E se n'era andato di corsa verso il molo. E lui, stupido, non s'era accorto di niente.

        In apparenza nessuno più aveva pensato a quell'avvenimento.

        Onofre entra in caserma e mostra la fotografia e la lettera, scritta in inglese.

        «Venivo...» dice nervoso.

        «Si accomodi!» ribatte arrogante il brigadiere, da dietro un tavolo grezzo. Comincia a parlare della lettera. Traduce direttamente dall'inglese al castigliano e, quando dice Ringrazio per l'accoglienza ricevuta in paese, enfatizza le parole. Grazie per il trattamento che mi avete riservato. Poi Onofre aggiunge, deciso, che è chiaro che John è un maestro inglese e questo prova la sua innocenza.

        Il brigadiere scoppia in una fragorosa risata. «Che strane idee» o qualcosa del genere, e aggiunge che quell'agente coi baffi, Epifanio Gómez per essere esatti, per accaparrarsi dei meriti, era solito occuparsi da solo delle faccende di contrabbando, per esempio perquisendo la galleria, e che proprio lì, per disgrazia, quel giorno, era caduto sulle rotaie e aveva perso i sensi; il macchinista l'aveva visto ma non era riuscito a frenare in tempo. Due pezzi, in due, proprio all'altezza del cuore. Il brigadiere gli offre un aperitivo.

        «E mi dica» inizia, e vuole sapere che novità ci sono nei mari lontani e com'è che non ha ancora messo piede a terra e, il primo giorno, è già lì, in caserma; prosegue dicendo che l'Inghilterra è sempre stata acerrima nemica della Spagna ma che, comunque, forse, anche tra gli inglesi c'è qualcuno che ha un cuore.

        «E così questo tal Jon è un maestro... Jon e poi?»

        «Huxley, John Huxley.»

        Accetta l'aperitivo per fugare anche gli ultimi residui di sospetto. Quando esce dalla caserma, Onofre si sente un po' brillo. Prima di andare a casa, fa un'altra tappa all'Ikaztegieta. «In ogni caso, Anita sarà arrabbiata, e questo per lo meno mi darà un po' d'allegria.»

        A Onofre non è molto chiaro cosa ci facesse quel tal Epifanio Gómez nella galleria e qualunque giudice avrebbe potuto considerare anche lui complice. Si dirige inquieto verso casa. Davanti alla cassetta delle lettere trova Heraklio, il postino. Costui gli si avvicina scusandosi e dicendo che già da qualche giorno era arrivato un pacchetto, ma siccome era troppo pesante non gliel'aveva ancora portato. Sembra che anche questo provenga dall'Inghilterra. Non crede alla scusa del peso, nemmeno per sogno. «Falangista di merda!» borbotta tra sé e sé, prende una Chester e ne offre una anche al postino.

        Con la fiamma dell'accendino spezza la corda che avvolge il pacchetto.

        «Per l'amor di Dio, non puoi aspettare e aprirlo come si deve?»

        Anita lo rimprovera per qualsiasi cosa, ma la curiosità di sapere cosa contiene l'involucro toglie all'uomo il desiderio di ribattere. Accecato dal fumo della Chester, spiega il pacchetto, togliendo i diversi strati di carta, come si trattasse di una cipolla. Heraklio, come se niente fosse, rimane lì, a curiosare. Il pacchetto è ben avvolto. Né Heraklio, né nessun altro ha potuto vedere cosa ci sia dentro. «Caprone d'un falangista» pensa di nuovo Onofre. Ma come fare a dirgli che se ne vada? Onofre soffre di una terribile paranoia dalla morte del gendarme. È stato sul punto di andare dal medico, e se non l'ha ancora fatto è solo per la paura che prova all'idea di dover raccontare la verità.

        «Tutto qui?» gli esce nel vedere il contenuto. «Un libro.»

        Il titolo è in inglese, Point counter point. Si legge anche il nome dell'autore, Aldous Huxley.

        «Anche quell'inglese, Jon, anche lui si chiamava Huxley, vero Onofre?»

        Gli risponde di sì e deve reprimere il desiderio di chiedergli come fa a saperlo. Sa che i gendarmi sono soliti passare lunghe ore negli uffici postali, senza uscirne. Il postino si allontana tirando le ultime boccate di sigaretta. Appena in tempo, perché Anita gli porta un altro bigliettino.

        «Huxley? Mi ero dimenticata di dirtelo. Dopo la tua partenza è saltato fuori questo biglietto da sotto il materasso.»

        Appoggia il libro e comincia a leggere il foglietto trovato da Anita. Ha tempo solo di vedere la firma. Juan. Anita ha preparato il pranzo e inoltre ricomincia a dirgli di non fumare e che la prossima volta deve trattare meglio Heraklio, la solita predica. Pur sapendo che è il primo giorno che passa a terra, ciò che non gli perdona, e che sempre muove i suoi rimproveri, è che abbia amici come Juan. Il solo ricordo di quell'uomo la mette in agitazione, come se avesse l'argento vivo addosso. Deve lasciare la lettura di quelle poche parole, la lettera è corta, per dopo pranzo.

        Mentre l'afa esterna trapassa le tende e cerca di infilarsi fino alla sala, sigaretta in bocca, il cognac nella mano sinistra e la lettera nella destra, finalmente può cominciare a leggerla. Lo scritto inizia chiedendogli se si ricorda di Pedro Korto. E come potrebbe non ricordarsene! Anche lui era scomparso durante la guerra, come molti altri, e non si erano più avute sue notizie. Non si trovavano forse tutti e tre sulla stessa nave, quando il sibilo dei proiettili si diffuse in tutta la penisola?

        Quando iniziò la guerra ci furono fra loro accese discussioni. Pedro diceva che bisognava partecipare, Onofre era contrario perché la vita di una persona era al di sopra di qualunque cosa, e per lui era lo stesso essere basco, spagnolo o inglese. Korto s'infuriava. Juan aveva sempre una posizione più moderata, forse per non arrabbiarsi con i suoi amici. Con il passare del tempo, Onofre ha capito la posizione di Korto, e gli sembra che fosse più corretta della sua, in fin dei conti più gratificante. E adesso, legato alle catene coniugali, senza figli, senza sapere che fare né dove andare, vive praticamente appartato dal paese, perché lì tutti, a eccezione di lui, hanno lasciato qualcosa in quella maledetta, ma allo stesso tempo benedetta, guerra. «Merda.»

        Quello che dicono le righe successive Onofre lo conosce a memoria. Che Korto andò in guerra, lasciandoli a Valencia. «Io me ne vado ad ammazzare fascisti.» Quanti fascisti avrà ammazzato Pedro Korto con il suo piccolo corpo, le gambe corte, le sue braccia tozze, prima di diventare un tutt'uno con la terra? Allora Onofre non aveva molte speranze riguardo al suo amico. Adesso rammenta le sue ultime parole: «Perdonate i miei errori e ricordatevi di me quando sarò al fronte.» Non era passata nemmeno una settimana che Juan aveva deciso di prendere la stessa strada e anche lui se n'era andato, senza terminare le esercitazioni. Era tornato in Inghilterra.

        Chiedendosi perché non gli avesse mai parlato di Pedro Korto durante quei quindici giorni trascorsi a casa sua, risponde a se stesso: «Perché aveva paura di te, Onofre» senza poter proseguire, come se sapesse cosa viene in seguito.

        Ma continua a leggere: Pedro Korto era morto a causa delle intemperie nel carcere di Ocaña, dove i prigionieri erano tenuti all'aperto giorno e notte. Il suo amico se n'era andato all'altro mondo, morto di fame e di troppo lavoro, senza un medico, con i polmoni distrutti. Onofre si serve dalla bottiglia un altro bicchiere di cognac. «Venni in possesso di una fotografia del carcere di Ocaña, anche se non crederesti mai come.» Onofre crederebbe qualunque cosa detta da Juan.

        Finita la guerra il suo amico si era nascosto sulle montagne delle Asturie, per continuare a combattere con i maquis; a questo punto Onofre vede con la fantasia l'immagine dei fitti boschi asturiani, avvolti da una foschia simile a quella che adesso gli causa l'alcool, verde e leggera, e vede anche Juan, nel maquis, scendere in pianura alla ricerca di cibo e vivere in altura nelle capanne dei pastori o nelle grotte, protetto in inverno dalla neve, sempre in fuga d'estate, incappando a volte in una pattuglia, e allora spari, fuoco, morti e feriti, o arrestati, Legge sul Banditismo e sul Terrorismo e fucilazioni. I boia hanno lavorato duro negli ultimi quindici anni.

        Un giorno, all'improvviso: Fermo lì! risponde all'ordine sparando, un gendarme morto e l'altro che scappa, a gambe levate. Nel taschino interno della giacca del bastardo morto i documenti, un po' di soldi, le sigarette e alcune fotografie. In una di esse, lui e le facce di altri cinque agenti del penitenziario di Ocaña, orgogliosi, con un gruppo di prigionieri nel mezzo, come se si trattasse di cacciatori che esibiscono la preda; miserabili che non sono altro! E, tra i prigionieri, Korto. Juan si era preso quella fotografia e l'aveva portata sempre con sé, vicino al cuore, perché qualcosa gli diceva che un giorno o l'altro sarebbe arrivato il momento di placare la sua sete di vendetta.

        «Uno degli agenti della fotografia era quello coi baffi che abbiamo visto in paese» gli rivela. E così a Onofre manca solo un ultimo dettaglio. Arriva alla riga successiva. Gli aveva dato un appuntamento, come si fa con il toro in una corrida. Anche se, quell'ultima mattina trascorsa a casa sua, aveva messo tutto in pericolo. Onofre non capisce come siano andate esattamente le cose e la lettera di Juan non lo chiarisce. L'ultima cosa che dice è che ben presto avrebbe vissuto uno dei momenti più felici della sua vita, alcuni minuti dopo aver scritto la lettera, quando avrebbe finalmente potuto sparare all'altezza del cuore a quel figlio d'un cane, e di non preoccuparsi, che sarebbe sembrato un incidente, perché conosce bene tutte le abitudini di quel Gómez; conclude dicendo che è certo che, nel leggere questa lettera, gli perdonerà tutto.

        L'afa sembra essersi attenuata. Le tende raccolgono le ombre del pomeriggio. Nella bottiglia, il livello del liquore è prossimo al fondo. «Juan, Juan, tu sì che hai le palle!» l'ammirazione e la rabbia si fondono in un unico sentimento. Gli occhi di Onofre scivolano sul libro posato al suo fianco. Accende la luce, tac! Point counter point. Punto contro punto. «Che diavolo, Juan!» Comincia a leggere. Dalla cucina proviene rumore di pentole, è Anita che sta preparando la cena. «Non cenare» dice l'uomo a se stesso. E non cena.

 

 

© Edorta Jimenez
© Traduzione: Roberta Gozzi


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