Beste hizkuntzetako lanen zerrenda

  Gran Via Edizioni / Milano
  Traduzione: Roberta Gozzi

 

 

 

HARAKIN

 

Con la scusa che c'era molto lavoro, Harakin disse a Esti, sua moglie, che sarebbe andato a pranzo a casa dei suoi genitori. Il fatto è che in casa sua non si respirava una bella aria.

        Suo padre, gli occhi inchiodati al documentario sugli uccelli, mangiava in silenzio, senza volerne sapere nulla della tensione che poteva percepire attorno a sé. Sua madre stava ai fornelli. Quando Harakin si sedette, cercò di concentrarsi sui volatili, ma la discussione del giorno prima con Esti, praticamente quotidiana negli ultimi tempi, lo aveva scosso al punto da renderlo incapace di concentrarsi su qualunque cosa. Sua madre gli mise un piatto in tavola senza particolare attenzione. Il piatto girò su se stesso per qualche istante. Con la durezza tipica degli ultimi tempi, la madre voleva che fosse chiaro che non era per niente d'accordo con quello che stava succedendo a lui e a Esti, «con quello che lei pensava stesse succedendo» pensò Harakin. E non solo quello: per sua madre il colpevole di tutto era lui. Harakin la cercò con la coda dell'occhio e la vide estrarre un fazzoletto da dentro la manica e soffiarsi i sospiri, per poi prendere un piatto e sedersi vicino al fuoco, invece che a tavola con lui e suo padre.

        Harakin ingoiò il cibo ringraziando il presentatore del documentario che rompeva il silenzio con la sua voce.

        Pronunciò un semplice «Ciao» e uscì per andare a prendere un caffè al Bazterretxea, il bar dove lui e i suoi amici avevano trascorso assieme la gioventù. Felipe e Manolo lo stavano aspettando per la partita a carte, ma disse loro che non aveva tempo, per non dir loro che ciò che gli mancava era la voglia, e si sedette solo al bancone. Ordinò un caffè al giovane cameriere; da quando Bazter aveva venduto il bar e se n'era andato a Londra, la gestione del bar era cambiata almeno quattro volte ma, nonostante questo, negli ultimi dodici anni il locale era rimasto aperto, «difficile da liquidare, come noi» pensò Harakin, mentre sentiva una botta di orgoglio gonfiargli il petto. Pensò a suo figlio e, sebbene cercasse di non farlo, la sua mente si riempì nuovamente di perché: perché era dovuta toccare a loro quella disgrazia, che cosa avevano fatto per meritarselo. Stavano passando un brutto periodo; Esti se la prendeva troppo, ma lui aveva bisogno di un po' di tempo.

        Quando vide Fermin entrare dalla porta, a quell'ora di un giorno feriale qualunque, si stupì molto. Doveva essere successo qualcosa a suo padre, pensò, ma corresse immediatamente le ultime parole con «a quell'ubriacone».

        — Cosa succede? Non vivi più nella tua Ñoñostia? — gli disse in tono scherzoso ma, conoscendolo come lo conosceva, capì subito che non era venuto con l'intenzione di fare quattro chiacchiere.

        — Cosa succede? — gli chiese con un tono di voce tale da poter essere sentito in tutto il bar.

        Fermin guardò verso Manolo e Felipe. Ad Harakin sembrò di scorgere, sulle labbra di Fermin, una punta quasi impercettibile di disprezzo.

        Poi, girando loro la schiena, si voltò verso Harakin e, indicando Manolo e Felipe, gli fece cenno di abbassare la voce.

        — Bazter è morto.

        — Cosa?

        — Bazter è morto, cazzo! — alzò la voce.

        Il bisbigliare monotono della televisione si interpose fra loro due:

        «Il Presidente del Consiglio spagnolo ha dichiarato che il problema basco non esiste».

        Harakin vide che Fermin si girava per verificare se i giocatori di carte avessero sentito qualcosa. Rimase con la mente in bianco. Notò che dentro di sé stava leggermente barcollando. Gli tornò alla mente il pensiero di suo figlio. La culla. Fissò il cerchio marrone che la tazza di caffè aveva disegnato sul bancone.

        — Cosa prendi? — chiese Harakin a Fermin.

        Vide che gli occhi stupiti di Fermin lo guardavano; si rese conto che masticava qualcosa tra i denti, ma fece finta di non sentire.

        — Cosa prendi? — insistette Harakin.

        — Un caffelatte, con poco caffè e latte tiepido — rispose Fermin con un tono troppo sicuro di sé.

        «Bazter è morto e questo, dopo pranzo, si prende un caffelatte, con poco caffè e latte tiepido», pensò. Poi si trovò a ripetere «Bazter è morto», e rimase pensieroso di fronte al cameriere per un lungo momento.

        La voce di Fermin che ordinava il caffelatte al cameriere lo fece tornare sulla terra.

        — Come fai a saperlo? — chiese a Fermin in tono di sfida.

        — Un suo amico, uno che si chiama Marc, mi ha chiamato quattro ore fa, e non ci sono dubbi, se per caso tu ne avessi — ribatté Fermin.

        — Cazzo, Bazter! Ci andiamo, no? — disse Harakin.

        — Sì, dovremo andarci.

        — Come «dovremo»?

        — Insomma, lui non si è preoccupato molto di farcelo sapere.

        — Gli amici sono amici, caro mio, che tu lo sappia o no — concluse Harakin.

        Appena si rese conto che Fermin stava iniziando con le solite storie, si infuriò, come sempre; ma stavolta non rispose, stanco com'era per la discussione avuta con Esti il giorno prima.

        — Bazter, ovunque si trovi, è uno dei nostri — disse a bassa voce.

        — Dei nostri? Cosa significa «essere dei nostri»? — ribatté Fermin, gli occhi infuocati al solo sentire quelle parole.

        Harakin guardò di nuovo verso l'angolo dove si stava giocando la partita a carte; non voleva iniziare a discutere, non con Fermin. Non capiva allora e non avrebbe capito mai quel suo atteggiamento di mettersi sul piede di guerra per qualunque sciocchezza, anche se in altre occasioni sapeva essere un buon amico. Bazter era appena morto, non era il momento di discutere e tanto meno di iniziare a litigare.

        Si girò di nuovo verso Fermin. Aveva una tazza di caffelatte appoggiata alle labbra. La televisione si intromise ancora una volta fra loro due. Harakin lo guardò di striscio. Sembrava arrabbiato.

        «Gesto por la Paz afferma che con un po' di volontà...»

        Pur di non guardare Fermin, lasciò che il suo sguardo vagasse per il locale. Si fermò su un pacchetto di Chesterfield che c'era per terra. Stava accanto a un adesivo con un'ikurriña, la bandiera basca. «I prigionieri...», si riusciva a leggere. «Ma sarà proprio vero che Fermin è di Gesto por la Paz?» Si alzò leggermente e schiacciò il pacchetto.

        — Senti — disse, obbligandosi a guardare in faccia Fermin — non mettiamoci a discutere di quello che Bazter rappresenta per ognuno di noi. Tu fai quel che ti pare, ma io cercherò di andarci, e avviserò anche Jexus Mari, magari gli fa piacere venire.

        Harakin recuperò la calma, vedendo che la sua intenzione di non discutere tranquillizzava Fermin. Diventava una furia quando Fermin era così aggressivo.

        — Dovremo andare ad avvisare Jexus Mari. Ti occupi tu di prendere i biglietti? Ci servono per domani — chiese con tutta la dolcezza di cui era capace.

        Fermin gli rispose con un cenno affermativo mentre finiva di bere il suo caffelatte.

 

 

Trovarono Jexus Mari nel bosco, stava tagliando legna. Ad Harakin sembrò che la notizia della morte di Bazter non suscitasse in lui una gran commozione; ma Jexus Mari era sempre stato così: un soldato ubbidiente, capace di nascondere i propri sentimenti. Disse che era d'accordo, senza fare tante storie come Fermin, anche se era vero che l'amicizia tra Fermin e Bazter era più forte di quella tra Bazter e Jexus Mari. Bazter morto. Suo figlio nella culla. La sua tendenza al comando, che fino ad allora in presenza di Fermin era riuscito a controllare, ebbe il sopravvento.

        — Fermin — sbottò Harakin — al funerale dovremo dire qualcosa. Non ti viene per caso in mente una poesia adatta alle circostanze?

        Pur notando che a Fermin non piaceva affatto il suo tono di voce, continuò come se non se ne fosse accorto.

        — Quella che avevi letto in quella cerimonia, quella delle radici; quella potrebbe andar bene. Ti ricordi?

        Fermin rimase a guardarlo fissamente. Harakin sostenne lo sguardo. Si accorse di avere le mani sudate. Se le strofinò sui pantaloni per asciugarsele. Con la coda dell'occhio vide che Jexus Mari li osservava: stava sicuramente aspettando il momento in cui avrebbero cominciato a litigare come due galli; ma Fermin si tirò indietro, benché sul suo viso apparisse un fondo di amarezza quasi impercettibile.

        — Quella di Joseba Sarrionandia — disse con tono secco.

        — Allora vedi di trovarla — aggiunse Harakin, dando per conclusa con quelle parole la negoziazione.

        Lasciarono Jexus Mari a tagliare legna e tornarono in paese, il paese che li aveva visti crescere e diventare rivoluzionari. L'automobile procedeva saltellando su quella strada sterrata. Harakin era seccato proprio perché gli sembrava di aver fatto arrabbiare Fermin, e notò che l'incazzatura di Fermin era probabilmente dovuta al fatto di continuare a far arrabbiare lui.

        Fermin lo lasciò davanti alla macelleria.

        — Allora mi chiami tu, per dirmi se hai trovato i biglietti o no. Non preoccuparti per il prezzo. Ci sentiamo.

        Dopo quel «ci sentiamo» concesso con grande sforzo, entrò nella macelleria e si recò nel retro, dove c'era una stalla; in un angolo, fregandosene della legge, aveva allestito un piccolo mattatoio illegale per vitelli.

        Durante tutto il pomeriggio, tra i vitelli da macellare e i clienti, non pensò a Bazter, né a Esti e nemmeno a suo figlio, ma appena l'ultimo cliente se ne fu andato, rimasto solo con i suoi genitori nella macelleria illuminata dalle luci al neon, i ricordi ricominciarono ad annodarglisi in gola. Si sentì debole. Prese il coltello ancora sporco di sangue fresco, lo mise sotto il getto d'acqua e rimase a guardare il sangue che scolava nel lavello. L'acqua rossa si perdeva giù per il tubo formando dei mulinelli. Sua madre stava pulendo le vetrine del bancone, e di tanto in tanto gli lanciava uno sguardo con la coda dell'occhio.

        — Dài, Pedro, vai a casa, che Estibalitz ti sta aspettando — gli disse, questa volta verbalmente, vedendo che suo figlio non voleva cogliere il messaggio del suo sguardo — le vetrine le puliamo io e tuo padre.

        — No, non preoccuparti, lo faccio io. È meglio che vada tu a casa, a preparare la cena, mi fermo anch'io da voi.

        Sua madre cercò con gli occhi l'aiuto del padre, segnale del fatto che si erano parlati ma, come sempre, suo padre non volle intervenire.

        — Pedro Mari, i problemi non si risolvono in questo modo — disse, e il silenzio calò come un vento secco su quella casa in cui non avevano mai avuto l'abitudine di parlare chiaro.

        Harakin si tolse il grembiule e uscì senza dire una parola. Per un attimo guardò attraversò il vetro della finestra e li vide: suo padre piegato sulle vetrine, che puliva; sua madre in piedi, lo sguardo verso la porta da cui era appena uscito suo figlio; aveva gli occhi gonfi, con un guanto di gomma cercava di asciugarsi qualcosa di simile a una lacrima già asciutta, senza riuscirci.

 

 

Tornò a casa verso l'una di notte, quando era sicuro che Esti stesse già dormendo e dopo aver passato la serata al Bazterretxea, a fumare canne e a bere birra con alcuni ragazzi del paese dieci anni più giovani di lui. Fece le scale a tentoni, salendo con un passo molto più rumoroso di quel che avrebbe desiderato. Si diresse alla stanza di suo figlio e rimase a guardarlo, mentre dentro la sua testa si mischiavano vorticosamente alcol, colpa e rabbia. Non avrebbe mai potuto insegnargli a giocare a calcio, non si sarebbero mai seduti assieme a fare una partita a carte, non avrebbe mai capito cos'era Euskal Herria — il Paese Basco —, non avrebbe mai saputo cos'è l'amicizia. Perché? Gli passarono per la mente tutti i posti in cui erano stati, di medico in medico: Parigi, dove si erano affrettati ad andare appena saputo che c'era uno specialista che trattava la sindrome di Down; oppure Bilbao, dove si erano recati da un altro medico che gli avevano raccomandato; o Londra, dove però era andato da solo. In ognuno di questi posti, la risposta che gli avevano dato era stata sempre la stessa: non c'erano cure dal punto di vista medico, ma avrebbero potuto lavorare sull'educazione del figlio e in questo modo era possibile ottenere ottimi risultati.

        Si mise a letto e si ritrovò steso a fianco di Esti, cosa che lo sorprese. Infatti, ultimamente, Esti era solita passare la notte nella stanza del figlio, benché Harakin sospettasse che non fosse per stare con il bambino quanto piuttosto per non dormire con lui; cosa della quale la ringraziava segretamente, visto che preferiva dormire solo e lasciar stare i problemi di coppia almeno durante la notte.

        L'insonnia gli portò ovviamente ricordi di Bazter, aneddoti di quando erano piccoli, di come tagliavano la coda ai gatti; i lunghi anni di catechismo, le preghiere e i canti; si ricordò di quella volta che Bazter, in classe, aveva battuto le mani due volte con forza e tutti, eccetto Harakin, avevano pensato che il catechismo fosse finito, perché questo era il segnale che utilizzava quel bastardo di don Juan Maria per comunicare la fine della lezione. Quando ormai stavano uscendo e il primo alunno aveva già messo un piede sulla soglia, era apparso don Juan Maria, quel bastardo di un prete, e li aveva tenuti in castigo tre ore, finché non era saltato fuori l'autore di quei colpi; dopo tre ore Bazter aveva finito per confessare che era stato lui e così, alla fine, verso le undici di sera, il prete lo aveva lasciato andare a casa, come ricompensa per la sua sincerità, mentre il resto del gruppo aveva dovuto fermarsi fino alle dodici, in castigo per non aver denunciato Bazter.

        Mentre l'immagine di suo figlio andava e veniva nella sua mente come il vento, apparivano i ricordi delle feste con Bazter, dei tempi della militanza politica, di quell'occasione in cui l'aveva accompagnato a visitare il luminare della sindrome di Down con la cartella clinica di suo figlio in mano; il pediatra, il dottor Kaplan, ancora ne ricordava il nome, si era rivolto a Bazter per illustrargli alcuni esami i cui risultati Harakin conosceva già; dopo le spiegazioni, il medico gli aveva chiesto se avesse qualche altra domanda da fargli. Harakin ricordò di aver fatto cenno di no scuotendo il capo, completamente rassegnato, poiché prima di andare a Londra sapeva già che risultati lo aspettavano. Sentiva ancora il peso della mano addolorata che il medico gli aveva messo sulla spalla quando li aveva salutati.

        Incapace di controllare la nausea, corse verso il bagno inciampando in tutto ciò che gli capitò fra i piedi. Vomitò con pazienza, prestando attenzione a ciò che usciva dalla sua bocca.

        Si mise a cercare qualcosa nell'armadio e l'operazione durò un momento. «Non c'è, porca puttana». Poi andò fino al telefono, asciugandosi le labbra con la manica. Le tre del mattino, vide nell'orologio della cucina. Alzò il ricevitore e sentì il messaggio di Fermin: «Ho trovato i biglietti: dopodomani alle cinue del pomeriggio. Il funerale è alle sei, abbiamo tempo. Ci vediamo alle quattro all'aeroporto di Bilbao. Io arriverò da Donostia per conto mio. Non dimenticarti i documenti. Ho prenotato anche l'hotel per la notte».

        Bazter era morto. Iniziarono a tremargli le gambe e degli strani singhiozzi gli scossero il petto. Si coprì il viso con le mani e si sedette sul divano per paura di cadere. Bazter era morto.

        Si alzò e compose un numero di telefono.

        — Jexus Mari?

        — ...

        — Sì, lo so che non è l'ora di chiamare. Senti, abbiamo i biglietti. Dopodomani alle quattro, all'aeroporto di Bilbao. Hai una bandiera? Non trovo più la mia.

        — ...

        — Ti ho chiesto se hai un'ikurriña?

        — ...

        — No, non sono impazzito.

 

 

© Juanjo Olasagarre
© Traduzione: Roberta Gozzi


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